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Donne, gravidanza e allattamento: cosa dicono le norme in Italia

In occasione della Settimana dell’Allattamento al senoLiving Suavinex Milano ospiterà un ciclo di incontri con i professionisti con un duplice obiettivo: indirizzare la neo mamma ad un allattamento sostenibile e favorire la crescita culturale in tutte le tipologie di famiglia contemporanea su un tema estremamente attuale. Questo articolo è un contributo dell’avvocato Laura Citroni, che affronterà nel corso del suo intervento i temi del congedo per maternità, le normative a sostegno delle mamme lavoratrici che allattano e i diritti per i genitori.

Donne, gravidanza e allattamento: cosa dicono le norme in Italia

Tante sono in Italia le donne che si sono trovate ad affrontare la dolorosa scelta tra la famiglia e la carriera. Tante, dunque, sono anche le donne coraggiose che, per amore dei propri cari e per soddisfare il loro desiderio più grande – quello di avere un figlio- sono state costrette a licenziarsi ovvero a subire discriminazioni sul lavoro.

La difficile gestione del tempo rende dunque quasi impossibile per le donne riunire la felicità di veder crescere i propri figli con quella di sentirsi affermate- e finalmente appagate- nel mercato del lavoro.

Tale quadro critico, tuttavia, rappresenta una realtà di fatto che – in verità- il nostro ordinamento giuridico ha tentato e tenta tutt’oggi di evitare. La normativa vigente, infatti, seppur non rispettata dai più, prevede una serie di diritti per le madri gestanti che meritano di essere approfonditi ed esaminati.

Vediamo subito dunque quali sono i principali istituti previsti all’interno Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n.151, rubricato “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”.

Congedo di maternità

Questo istituto consiste in un periodo di astensione dal lavoro concesso obbligatoriamente alla donna per un periodo complessivo di 5 mesi.

L’art.20 della legge permette alla lavoratrice di “distribuire” i cinque mesi di aspettativa secondo tre modalità diverse, di cui le ultime due costituiscono la c.d. “maternità posticipata” che sono tuttavia permesse solo se viene certificato dal medico aziendale o dal ginecologo il buono stato di salute della donna e del bambino. I tre periodi sono:

  • 2 + 3 mesi = 2 mesi prima della data presunta del parto, e i 3 mesi successivi alla nascita del figlio (questa costituisce la modalità “ordinaria” prevista dall’art. 16 della Legge n.151/2001).
  • 1 +4 mesi = 1 mese precedente al parto e 4 successivi.
  • 0 + 5 mesi = 5 mesi dopo il parto.

 

Quest’ultima è la novità introdotta dalla Legge di Bilancio 2019, con la quale è stato appunto concesso alle lavoratrici – purché munite di apposito certificato medico- di utilizzare tutto il periodo del congedo dopo il parto, così da poter dedicare più tempo al proprio figlio.

Durante il periodo di aspettativa la donna ha diritto a percepire un’indennità dall’INPS – pari all’80% della retribuzione media giornaliera– che per le lavoratrici dipendenti può anche essere integrata dal datore di lavoro secondo le regole della contrattazione collettiva relativa alla categoria di appartenenza.

Oltre al congedo di maternità, è bene specificare che esiste anche il c.d. “congedo parentale” (art.32 D.Lgs n. 151/2001). Si tratta – questa – di un’astensione solamente facoltativa dei genitori che consiste in un periodo di aspettativa complessivo di 10 mesi (può essere continuato ovvero frazionato nei 12 anni di vita del bambino). Per la lavoratrice autonoma il tempo è ridotto a 3 mesi ed il diritto viene meno dopo il primo anno di vita del bambino.

In caso di malattia del figlio, l’Art. 47 del testo unico prevede un periodo di aspettativa ad hoc che può estendersi per tutta la durata della malattia del figlio, se questo ha meno di 3 anni (art. 47). In caso di malattia del figlio di età compresa tra i 3 e gli 8 anni, l’astensione è di massimo 5 giorni lavorativi l’anno.

Permessi per riposo e allattamento

I permessi di riposo giornalieri sono espressamente disciplinati all’interno dell’art.39 del TU.

Essi permettono alla donna lavoratrice dipendente di uscire dall’azienda, tornare a casa e provvedere all’allattamento del figlio. Tali permessi, calcolati ad ore, sono garantiti fino al compimento di un anno di vita del figlio e rappresentano un’altra forma di tutela del diritto alla salute della madre lavoratrice e del neonato.

Alle madri lavoratrici dipendenti, sia che si tratti di lavoro a tempo determinato che indeterminato, spettano due periodi di riposo di un’ora.

Un solo permesso per l’allattamento, invece, spetta alla donna impegnata in un lavoro part-time che la impegni meno di sei ore al giorno.

Il tempo si dimezza – in ogni caso- qualora la neo mamma dovesse fruire dell’asilo nido o di altra struttura idonea situata vicino al luogo di lavoro.

Nel caso del parto gemellare i riposi sono raddoppiati.

Bisogna poi aggiungere che il riconoscimento della parità di trattamento tra figli naturali e figli legittimi, inoltre, fa sì che anche in caso di adozione i tempi sono i medesimi e raddoppiano – dunque- qualora vi siano due o più bambini.

È bene tuttavia specificare che per ottenere tali permessi non è necessario dimostrare l’allattamento: difatti, hanno come obiettivo principale il “riposo generale” della donna per garantirle la possibilità di conciliare la vita famigliare con quella lavorativa.

Inoltre, tali permessi possono aggiungersi al congedo di maternità, purché questo sia terminato e purché sia rispettato il limite temporale di un anno di vita del bambino.

In relazione al congedo parentale, invece, questi permessi sono alternativi, ma la scelta tra uno e l’altro non è assolutamente indifferente. Infatti, mentre il congedo parentale è retribuito con una percentuale del 30% rispetto all’ultima retribuzione giornaliera, il permesso per l’allattamento viene retribuito al 100%, come se la donna non avesse mai di fatto lasciato il luogo di lavoro!

È rilevante inoltre evidenziare che la normativa vigente attribuisce il diritto a richiedere i permessi “di riposo” anche alla figura paterna. Tale diritto è tuttavia limitato ai soli casi in cui:

1) alla madre non spettano i permessi perché non è lavoratrice dipendente

2) la madre lavora come “casalinga” (tale fattispecie è stata introdotta con le Circolari INPS n.112 e n.118 del 2009);

3) il figlio è affidato al madre in via esclusiva;

4) la madre è assente per morte, abbandono del minore o per grave infermità.

Premesso quanto sopra, si precisa che i permessi summenzionati non vengono concessi automaticamente. La madre lavoratrice dipendente, o il padre nei casi appena indicati, non possono infatti assentarsi dal lavoro senza aver prima concordato i tempi e le modalità con il proprio datore di lavoro. Sarà il datore di lavoro che si occuperà di inoltrare alla Direzione Territoriale lavoro competente il modulo contente l’accordo raggiunto.

In ogni caso – come si può notare – la procedura è piuttosto semplice e severe sono le sanzioni cui possono incorrere i datori di lavoro qualora dovessero arbitrariamente ostacolare l’esercizio dei diritti sin qui esposti.

Se vuoi approfondire l’argomento, trovi il contributo completo dell’avvocato Laura Citroni a questo link: http://bit.ly/2nFQhEM

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